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Mamma dice che ti odio

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     Esco dalla famosa doccia del circo Barnum e suona il telefono cellulare. Notando il numero di casa, rispondo immediatamente, nella certezza assoluta di dover condividere, con uno almeno dei miei, un’esperienza surreale. Papà, con tono funereo: «Dimmi la verità» (da mesi, oramai, i miei, ogni volta che mi vedono, attaccano con uno sconsolato «dimmi la verità», che io, essendo un notorio, falso, cialtrone e truffatore, merito senza riserve). Temendo un lutto, una multa, o, almeno, una denunzia ai carabinieri, ribatto rassegnato: «Cosa è successo stavolta?». Di qui, miei tre lettori, inizierà un discorso che esula da ogni forma di logica aristotelica o formale e che necessita, ai fini della reale comprensione ermeneutica, come minimo di un dottorato in filosofia analitica. Papà: «La mamma (x) sostiene che tu (y) mi (z) odi, perché io (z) mercoledì ti (y) ho urlato dietro. Dimmi la verità: tu (y) mi (z) odi davvero o riesci (y, indiretta) a spiegare alla mamma (x) che non è vero che tu (y) mi (z) odi?»; io, calmo, replico: «Pa’, io al Liceo classico, al massimo, sono arrivato a far finta di risolvere tripli sistemi di equazioni a tre incognite: sono trascorsi quindici anni, non saprei…». Lontano, beata bucolica innocenza!, dall’afferrare la benché minima forma di ironia, il marito di mia madre continua imperterrito: «Tua madre (x) dice che tu (y) non vieni a trovarci (x+z) a casa da due settimane, dato che, mercoledì, davanti a lei, ho (z) alzato la voce con te (y) sulla questione delle ruote della (tua, y) bicicletta!»; sconfortato, cerco di aggirarlo e di buttare il cuore oltre l’ostacolo: «Scusami: se mercoledì ero a casa da voi, con voi due insieme, com’è che non mi vedete da due settimane?». Silenzio (sento un borbottio concitato all’altro capo del telefono, come se una freccia di logica aristotelica avesse fatto breccia nella fuzzy logic dei miei). Papà, sempre meno convinto: «Tua madre dice che non ti vede da due settimane: mercoledì non vale»; io: «Perché?»; lui: «Perché è il giorno che ti ho sgridato (?!) davanti a tua madre sulla questione delle ruote della bicicletta». La sfida si faceva ardua, Ambra e i vicini, l’intero isolato, iniziavano a farmisi intorno, come a darmi sostegno e consulenza filosofica; iniziavo a sentire bisbigli: «Come faceva ad essere lì, mercoledì, se non era lì» o «Questo ragazzo – era una nonna rivolta al nipotino o un grillo parlante- odia il suo babbo. Finirà in carcere o in ospedale». Io, in un crescendo di irritazione: «Pa’, mercoledì non mi hai sgridato! Pretendevi semplicemente, con la solita flebile voce a tono baritonale, che io gonfiassi le ruote della mia bicicletta con una pompa rotta»; lui, inferocito: «La vostra generazione è una generazione di laureati che non è capace di gonfiare una ruota di una bicicletta: bastava, come ho fatto io, avvolgere la pompa in uno straccio, infilare un bussolotto di carta A4 nella valvola della ruota e…», «… soffiare», lo interrompo io, tra le sghignazzate dell’intero vicinato e di mia madre (in Dolby Surround). Papà: «Possibile che sei il solito cretino? Comunque tua madre (x) vuole sapere se tu (y) mi (z) odi»; io, di rimando: «Pa’, secondo te ti odio? Ti sono venuto a trovare ieri al circolo, e abbiamo scherzato mezz’ora. Per me siete due asini!»; lui, senza vergogna: «E te sei il terso asino che tira il carretto! Spiegalo a tua madre, adesso». Qui – riflettevo tra me e me (y / y)- entra in gioco l’artiglieria campale: ogni forma di umana logica è a rischio. Mia madre: «Mio marito mi odia!»; io: «Ma’, Pa’ odia me o odia te?»; lei: «Odia te, e, in quanto io sono tua madre e ti amo, odia anche me. Questo brutto ceffo, che ho avuto l’incoscienza di maritare, ha lo stamaledetto vizio di urlare con tutti. L’ha fatto sin dal viaggio di nozze. È un troglodita: è due mesi, che ogni volta che ti vede, ti sbraita contro». Le rispondo, cercando di rasserenarla: «Sinceramente il fatto che lui urli non mi tange affatto: è una dinamica normale tra generazioni: lui vuole farmi fare cose assurde, con mezzi di fortuna, come se fossimo ancora nella Grande Guerra sotto un assalto degli Ussari; io lo sfotto con malcelata ironia, e, lui, non riuscendo a controbattere con ironia all’ironia, facendo parte di una generazione di tuttologi, si incazza e urla. È una reazione a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e fisiologica! Poi non è vero che ogni volta che mi vede mi urla dietro: è un pezzo di pane…»; lei: «Sicché, un energumeno maltratta (?!) tua madre (cfr. odia te, e in quanto io sono tua madre e ti amo, odia me) e tu non lo odi?»; io, recisamente: «No»; lei: «Ah, bene, ero preoccupata: non ti vedevo da due settimane (n.d.t., da tre giorni) e credevo fosse causa di mio marito. Se è così, settimana ventura veniamo a casa vostra a vedere la tv nuova. Va bene?». Io, sconsolato: «Per me siete due asini!»; lei, senza un minimo di decoro: «E te sei il terso asino che tira il carretto!». Abbandonato costei il telefono mediante una houdinesca sparizione ectoplasmica, sento di nuovo una voce maschile: «Quindi, vi siete chiariti?»; io: «Pa’, sì, venite settimana ventura a vedere la tv nuova: ci amiamo tutti». «Ciao»; «ciao». Pizza ormai fredda, Ambra che si sbellica sul divano, disperso, con un idrante, l’assemblamento del vicinato, rimugino, taciturno, sulla storia dell’odio e dell’asino, immaginandomi alle stanghe del loro, affiatato, famigerato carretto (Com’è che si odiano tanto – rifletto- e non appena li accuso di essere asini, come avessero un’anima sola, mi obiettano, in differenti momenti, «E te sei il terso asino che tira il carretto!», entrambi con la medesima, accomunante, sdrucciolata sul terso?). Parlotto con Ambra, cercando di attribuire un senso esistenziale all’accaduto, mangio, vedo dieci minuti di tv, controllo le email, e non convinto, richiamo casa. Risponde una voce maschile: «Pa’, vi siete ammazzati?»; lui, con voce assonnata: «La mamma, rasserenata dal fatto che tu non sparirai ancora per due settimane (?!), è andata a ballare; io ho sonno e vado a dormire»; io: «Ma hai capito che non ti odio?»; lui: «Perché dovresti odiarmi?»; io, sbigottito: «Infatti! Ma tutto il discorso di mezz’ora fa?!»; lui: «Quale?». «Ciao»; «ciao». Lo immagino con estrema tenerezza, sfinito dal sonno e dalla stanchezza, barcollare in canottiera e mutande verso il suo letto. Il che è bello e istruttivo.   

 Ivan Pozzoni - 19/01/2018 15:20:00 [ leggi altri commenti di Ivan Pozzoni » ]

Ti ringrazio molto, Monica :-)

 Monica Paccagnella - 19/01/2018 15:02:00 [ leggi altri commenti di Monica Paccagnella » ]

Racconto gustosissimo. Complimenti!

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